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Storico May, 2012

Ultimo appuntamento della stagione all’HP3 in via S. Cosimo 5

HP3

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30 APRILE 2012

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GIORNATA MONDIALE. L´Unesco ha scelto il 30 aprile per celebrarlo

La colonna sonora
verso la libertà:
è il jazz che fu jass

Riccardo Brazzale

Ha un nome senza un perché, viene dal blues (non solo) e dall´incontro e scontro tra Africa e Europa costrette a convivere in America

Louis Daniel Armstrong (1901-1971). Era noto anche con il soprannome di Satchmo o Pops | Miles …

Che bella storia, quella del jazz. Con un nome senza un perché, tanti padri incerti, madri forti e affettuose ma prese dal sudore e dai pensieri del tirare avanti. Nato per le strade e nei postriboli, dall´incrocio di uomini e donne venuti a galla nel random del melting pot, nel crocevia di culture sperse e ritrovate, nel mistero della musica, unico linguaggio che sa unire senza il rischio delle traduzioni che tradiscono.

Musica di sintesi, si dice, un fiore che sboccia dall´incontro-scontro fra chi veniva da terre lontanissime l´una dall´altra, l´Africa e l´Europa costrette a convivere in America. Charles Mingus, però, era un tipo meno poetico e avrebbe titolato la sua autobiografia Beneath the underdog, peggio di un cane bastardo. Perché la verità è che il jazz è stato per tanto tempo la colonna sonora di una lunga, perigliosissima marcia verso la libertà, prima di un popolo, quello degli afroamericani, poi di tante minoranze etniche (con gli italoamericani in prima fila) che cercavano nella musica l´arma non contundente del riscatto.

Sono passati 150 anni da quando una ragazza, tornata a casa immalinconita, scriveva nel suo diario I came home with the blues. Ne dovevano trascorrere altri cinquanta prima che un blues diventasse quello che sarebbe stato per sempre, stampato per la prima volta su carta da musica, col titolo di Memphis Blues di William Christopher Handy. Cinque anni dopo ancora, cinque musicisti che avevano pensato di lasciare New Orléans, allora capitale di quella strana musica che si chiamava con un nome strano, incidevano un disco che sarebbe divenuto pietra miliare: un brano, Livery Stable Blues, è subito un hit mondiale e il gruppo che lo suona, in poco tempo, una celebrità. Si chiama Original Dixieland Jass Band, ancora con la doppia esse ed è una band di bianchi; il leader è il trombettista, Nick La Rocca, e i suoi genitori vengono da Salaparuta, provincia di Trapani.

Non è probabilmente il jazz più vero, quello dell´ODJB, ma emana un´energia incredibile, contagiosa a dir poco. Sì, anche i bianchi sanno fare il jazz, ma da quelle parti c´è già un tipetto scaltro che di lì a poco darà una svolta e definirà il punto di non ritorno. È Louis Armstrong, l´autentico eroe di quegli anni, gli anni dell´Età del Jazz, come avrebbe detto Scott Fitzgerald: ogni nota che suona emana swing, si muove, non si sa come scriverla sul pentagramma. In Manhattan Woody Allen elenca alcune cose per cui val la pena di vivere. Fra le altre, vi sono due titoli di musica: il secondo movimento della Jupiter di Mozart e Potato Head Blues di Armstrong. Potato è un inno alla gioia ma il jazz viene anche dal blues, come peraltro dalle canzoni, dalle marce, dalle quadriglie, dai ragtime, dai canti di lavoro e dai balli scatenati, dagli spiritual e pure dall´habanera dei Caraibi e da tanto altro ancora. Ma viene pur sempre dalla malinconia del blues.

Billie Holiday canta Strange fruit pensando a quegli uomini che pendevano impiccati dagli alberi; Duke Ellington titola Black Brown and Beige, suite che ci ricorda quanta strada ancora dovranno fare i suoi simili, prima di sognare di esser eletti presidenti degli Stati Uniti. Ed era il 1938 quando Benny Goodman portava per la prima volta il jazz dentro a un teatro per farlo suonare, cosa inaudita, da bianchi e neri insieme.

Musica negletta, di un popolo e di gente negletta, eppure musica di tutti, davvero di tutti, dell´altezzoso dio nero Miles Davis, cui tutto si perdona pur di riascoltare quelle due note di poesia che aprono il solo di So What, e di un «santo subito» come John Coltrane che copriva i mali del mondo con le sue coltri di suoni; e poi di tanti artisti maledetti, per i quali Charlie Parker non è mai morto, ma anche di anime che vivono in un mondo a parte come Thelonious Monk, che fanno dei silenzi e dei dubbi e degli errori il loro sistema di vita. E non meno di zingari della Camargue, scugnizzi vesuviani, boscaioli scandinavi, pescatori del Gange, che hanno investito i loro pochi talenti in una musica capace di abbattere barriere e aprire i cuori.
La Risoluzione 39 dellUnesco ricorda che «il jazz è uno strumento di sviluppo e crescita del dialogo interculturale volto alla tolleranza e alla comprensione reciproca» e per questo ha proclamato il 30 aprile, oggi dunque, Giornata internazionale del jazz. Per i nipoti di quei musicisti che entravano sui palcoscenici dalla porta di servizio riservata ai coloured è una conquista inimmaginabile. Ma la favola del jazz sarà totalmente compiuta quando questa musica sarà unicamente volta alla comprensione e al dialogo. Allora sì che la bella storia avrà il sapore della favola a lieto fine.

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